La recente sentenza n. 12174 / 2019 emessa dalla Suprema Corte ha confermato ulteriormente la discrezionalità dei Giudici nello stabilire il risarcimento dei danni in capo al lavoratore che sia stato licenziato superando il contenuto dell’art.3, comma 2, Dlgs 23/15. Con tale norma il Jobs Act voleva porre fine, almeno per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, alle querelle interpretative che avevano animato gli interpreti della Riforma Fornero, arrivando persino ad espungere dalla valutazione giurisdizionale il canone della proporzionalità. Tale norma avrebbe dovuto consentire al datore di lavoro di prevedere al momento del licenziamento con certezza aritmetica il rischio economico di causa, sia in termini di possibile reintegrazione del dipendente che quanto al possibile risarcimento. Tuttavia tale certezza, peraltro già presente in molti ordinamenti europei, é durata poco. La nota sentenza della Consulta della Corte Costituzionale, n. 194/18, aveva iniziato a smantellare il Job’s Act , vanificando la portata innovativa dell’articolo 3, comma 2, del Jobs Act. Il Decreto Dignità allargando il delta del risarcimento tra un mimino di 6 a 36 mensilità, più ampio di quello della Legge Fornero aveva in qualche modo legiferato in linea con tale orientamento, che é stato confermato da tale ultima sentenza. La Corte, infatti, ha precisato che «ai fini della pronuncia di cui all’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore […] comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare». Dunque spazio alla Magistratura e riduzione dei poteri del Legislatore. La antica battaglia fra potere Legislativo e potere Giudiziario imperversa anche nel diritto del lavoro, segnando in tal caso un punto a favore dei magistrati.
Milano, l7 maggio 2019
Avv. Stefano Salvetti