Ai sensi dell’art. 2103 C.C. il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria che abbia successivamente acquisito e, nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta.
Viene sancito dalla menzionata norma un principio di fondamentale importanza: il lavoratore non può venire adibito a mansioni inferiori a quelle assegnategli all’atto dell’assunzione.
A tal proposito la giurisprudenza ha ritenuto che “Il datore di lavoro ha l’obbligo non solo di non assegnare il lavoratore a mansioni inferiori a norma dell’art. 2103 C.C., ma anche di non tenerlo in forzata inattività, poiché il lavoro, costituisce un mezzo non solo di guadagno ma anche di estrinsecazione della personalità” (Cass. sent. 13/2/1998 n. 1530).
In altri termini, viene frustrata la finalità dell’art. 2103 C.C., se non viene consentita la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita dal lavoratore nella pregressa fase del rapporto.
Sul punto occorre sottolineare che la Suprema Corte di Cassazione ha individuato un demansionamento quando la modifica quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore, con riduzione delle stesse, sia tale da “comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un consequenziale impoverimento della sua professionalità” (Cass. Sent. 4/8/2000 n. 10284).
Quanto all’espletamento di mansioni superiori alla qualifica, l’attività deve essere sempre remunerata, anche se a svolgerla è un pubblico impiegato. Al dipendente non spetta tuttavia necessariamente il trattamento economico corrispondente alla qualifica superiore dal momento che il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente espresso nell’articolo 36 della Costituzione, infatti, si considera pienamente rispettato anche con la corresponsione di un emolumento connesso allo svolgimento dell’incarico.
La Sezione Lavoro della Cassazione ha di recente ricordato che non esiste nel nostro ordinamento un principio che imponga al datore di lavoro, nell’ambito di rapporti privatistici, di garantire parità di retribuzione e/o di inquadramento a tutti i lavoratori che svolgono le medesime mansioni tanto che il parametro costituzionale della giusta retribuzione non deve tradursi in un rigido automatismo (Cass., Sez. Lav., 29/09/2009, n. 20845).
Avv. Stefano Salvetti